TERRIBÌLIO DI MARE
SUGGESTIONI TEATRALI DA HORCYNUS ORCA DI STEFANO D’ARRIGO
regia Maria Maglietta
con Salvatore Arena, Teresa Canale, Roberto Corradino, Elisa Cuppini, Luca Fiorino, Raffaele Gangale, Antonino Praticò, Roberto Salemi, Margherita Smedile
elaborazione drammaturgia Maria Maglietta, Massimo Barilla
drammaturgia del movimento Elisa Cuppini
creazioni scenografiche Marcello Chiarenza
collaborazione alla realizzazione Antonino Negri, Riccardo Sivelli
costumi Daniela Cernigliaro
musiche Angelo Berardi
aiuto regia Manuela Cherubini
assistente di scena Cinzia Cometti
collaboratori Gianfranco Bagozzi, Michele Borgia, Alessio Frisone
elettricista Santino Smedile
luci e fonica Claudio Venturati
ideazione e coordinamento organizzativo Massimo Barilla
produzione Associazione Artistica Mana Chuma e Parco Letterario Horcynus Orca
debutto 5-6-7 luglio 2001 Messina, Parco Horcynus Orca
9-10 luglio 2001 Reggio Calabria – spiaggia del Lido Comunale
La guerra, la seconda, mondiale e terribile è ormai finita e fa da sfondo con le sue distruzioni al paesaggio. Le donne cominciano con un lamento ai ferriboat orami affondati, poi un raccoglitore di ricordi, lo piaggiatore, farà risvegliare il corpo dell’anti-eroe ‘Ndrja Cambria che cerca di tornare a casa, cerca barche e donne femminote che gli permettano una traversata, ma il mare è delle ferree di cui si dirà la lotta, la puttanaggine, la cattiveria ma pure la dolcezza, l’innamoramento e la seduzione.
Una maga farà spiaggiare ‘Ndrja dall’altra parte, non c’è bisogno di nominare le geografie, c’è sempre un’altra parte del mare dove occorre tornare, “di là” non c’è mai più nulla di ciò che era un tempo, di là c’è un mondo disgregato e straniero. Mentre nello Stretto si alza immensa l’ombra del grande pesce, immortale e sempre morente, l’orca gigante che si porta a morte sua il mondo intero, ‘Ndrja trova una barca e un sogno di rivincita, irrealizzabile nella realtà, ma possibile nell’ultima gara sulle acque, ultima e non più rimandabile.
NOTE DI REGIA di Maria Maglietta
Non so dire come sono arrivata a sentire che mi era possibile mettere in scena il romanzo di Stefano D’Arrigo; l’assoluta fascinazione che mi ha assalita durante la lettura ha impedito in me il formarsi di pensieri razionale, ne sarebbe bastato uno solo e di sicuro allora avrei rinunciato: poiché l’impresa è davvero impossibile. La potenza straboccante dell’opera impedisce qualsiasi rappresentazione.
Non è tanto la lunghezza epopeica, le digressioni, i mulinati narrativi che tornano incessanti ad avvolgersi su sé stessi, non le enciclopedie contenute e straripanti, la valanga di racconti inanellati uno nell’altro, non è questa pazzia di voci narranti quello che spaventa, ma un senso smisurato nel Tempo che tutto racchiude, un Tempo mitico che in tre giorni di umane vicende vive un cerchio di eternità.
Nella lettura occorre infatti sospendersi a tratti, staccarsi e tornare in sé, e solo dopo qualche spazio di riposo, ritornare a immergersi.
In teatro invece la densità è tutto, la compattezza temporale è materia invincibile.
E allora è stato proprio nella materia che ho cominciato a imbastire i miei fili, a tirare le reti delle mie fascinazioni e visioni.
Il romanzo è ovunque materico, nel fiume di parole che diventa mare di racconti restano sempre toccabili coi sensi odori, colori, i sudori, quel pulsare vivente di organismi abbrancati ad ogni goccia di tempo vitale, è a questi odori che sono andata dietro, cercando corpi pronti a emanarli, corpi femminili e maschili, corpi “pescatori”; è come se lavorando alla stesura di una impossibile drammaturgia insieme a Massimo Barilla, avessimo catturato quel poco che resta nelle reti quando la pesca è già conclusa, filamenti, embrioni, grumi, con quell’odore forte che stride e prende alla gola.
Sono rimasti corpi di attori e attrici ordinati nel tessuto, scompigliati nell’incrociarsi dei racconti, cercando di non cadere nel possibile neorealismo, lasciando spazio al puro movimento, a danze imprecise che Elisa Cuppini ha montato a partire da gesti concreti, da materia di lavori e mestieri, dai personaggi inventati e dalle loro relazioni col paesaggio.
Immagino noi tutti come viaggiatori clandestini, notturni, che in punta di piedi attraversano il mondo di D’Arrigo e rubacchiano da ladruncoli e puttanieri, un po’ qui e un po’ là, portandosi dietro pezzi di memoria, parlando con le parole difficili e fantastiche di D’Arrigo, in un ingaggio che scende a valanga e intoppa l’anima e allora ecco venir fuori il coro a dar man forte, a moltiplicare la singola voce in una comunità, sì come fossero gli attori fantasmatiche reminiscenze di altre comunità ormai perdute, di pescatori pellisquadre di antichi artigiani della fame e del mare, ma senza nostalgie anzi,, con una certa spietata necessità.
Lo spazio circolare, l’auditorio marino e sabbioso che racchiude in cerchio gli ascoltatori spettatori, è introdotto da una porta magica, che dà diritto all’entrata e alla vita.
La musica, sempre dal vivo, è orchestrata da un musico accompagnatore, testimone che segue il percorso dello spettacolo come suonasse in occasione del suo battesimo e del suo funerale.
Perché l’inizio, come pure la fine, rispetta le stesse parti del romanzo, un cerchio troppo perfetto che contiene al suo interno le nostre visioni.
Intorno gli oggetti incantati di Marcello Chiarenza sospendono ogni realismo, riconducono al sogno, mitizzano i contenuti delle azioni e delle parole, oggetti feticcio, totem, aerei depositi di pura immaginazione evocativa che gli attori utilizzano come si fa con l’arte vera che non sta lì per essere ammirata ma per essere mangiata per farsene nutrimento.
Alla fine sarà una traversata non finita poiché qui, in questo mare reale e nel suo doppio di narrazioni e di storie, dentro l’immensa acquattare di D’Arrigo si può e si deve tornare più volte per ancora prendere e attingere.
Mi piace pensare ad un progetto di rappresentazione nel tempo, teatrale, filmico, visivo, musicale, in cui i linguaggi possano mescolarsi e trovare altre occasioni di sedimentarsi in visioni, e queste di restare attaccate alla rete degli sguardi e dei cuori in ascolto degli spettatori richiamati alla riva.