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COME GOCCE DI UNA FIUMANA

I TAPPA DELLA TRILOGIA SULLA MEMORIA DELLA PRIMA GUERRA MONDIALE

testi tratti dagli scritti dei soldati al fronte: Luciano Bertoluzza, Guerrino Botteri, Riccardo Bridi, Vigilio Caola, Alfonso Cazzolli, Riccardo Chizzali, Giuseppe Demattè, Augusto Gaddo, Ermanno Guarnieri, Sebastiano Leonardi, Luigi Moresco, Giuseppe Passerini, Giovanni Pederzolli, Vittoria Fait Prosser, Emilio Raoss, Decimo Rizzolli, Giuseppe Sartori, Davide Terzi e Fidenzio Tiboni
regia Marco Baliani
aiuto regia Maria Maglietta
drammaturgia Marco Baliani, Francesco Guadagni, Maria Maglietta
consulenza storiografica Fabrizio Rasera e Camillo Zadra
percorsi sul movimento Elisa Cuppini
costumi Chiara Defant
con Roberto Anglisani, Sandra Cosatto, Elisa Cuppini, Fabiano Fantini, Teresa Ludovico, Rita Maffei, Claudio Moretti, Piera Principe, Renato Rinaldi
e con la partecipazione di Piero Carrotta, Livio Colombo, Giulia Frizzera, Giovanna Marinelli, Carlo Marzani, Giuliana Pellizzari, Carlo Presotto, Magda Ricci, Paola Rosà, Paola Rossi, Luca Sartori, Loredana Venturelli, Renzo Vettori, Antonio Volpi
produzione Museo Storico della Guerra di Rovereto
organizzazione Ars Group
da un’idea di APT Trentino in occasione dell’80esimo anniversario dell’inizio della Grande Guerra

Premio IDI 1994 come miglior regia


La guerra moderna ha questo di spaventosamente triste: l’individualità sparisce, si diventa gocce di una fiumana di lava che lentamente, con moto fatale, si spinge in avanti, s’arresta, retrocede. Le gocce non contano nulla, se una si ferma, s’agghiaccia, si perde, nessuno ci bada, se quella gocce stride, cigola prima di spegnersi, il suo grido è sopraffatto dal cigolio spumoso, enorme del fiume. Così noi”.

Guerrino Botteri, dal fronte

Nella moltitudine di stimoli, emozioni, riflessioni che ci hanno toccato leggendo i diari, gli scritti, le pagine raccolte dai curatori di “materiali di lavoro” nel rapporto degli oggetti e gli spazi di questo eccezionale archivio della memoria che è il Museo della Guerra di Rovereto, ci è sembrato necessario eleggere un tema centrale, come per trovare un cuore emotivo intorno al quale fare ruotare il nostro teatro.
Questo tema è lo “sradicamento” e non appartiene solo alla Prima Guerra Mondiale, ma a tutte le guerre passate e presenti.
Sradicare affetti, relazioni, paesaggi, sistemi di vita, perdere il nome per divenire numero, perdere la memoria dei propri gesti, doversi relazionare a leggi, regole, idiomi e comportamenti sconosciuti, perdere legami fino a un momento prima saldi e certi. Tutto questo perdere e perdersi, abbandonare e abbandonarsi è il segno più violento e drammatico che ogni guerra porta con sé.
Per questo tra i tanti diari, scritti, racconti, abbiamo scelto quelli che pur partendo dalle condizioni della Prima Guerra Mondiale parlassero, però, un linguaggio e veicolassero un’emozione universale, che richiamassero alla nostra memoria anche guerre più recenti, che ci facessero riflettere sulla condizione disgregante di ogni guerra, sulla frattura e sulle ferite psicologiche che essa trascina anche in chi resta.
Ci ha impressionato negli scritti, il senso di un’enorme macchina mortale che trascina carovane di uomini e donne, sperduti, che si aggrappano a un nome, un ricordo, una lettera per sopravvivere e che nel caos della perdita di ogni riferimento riescono con forza a conservare un’etica, una dignità o anche una debole ma necessaria memoria, oppure a compiere gesti estremi, che non sono atti eroici ma necessari, oppure a confondersi nel turbine e cedere e arrendersi.
Vorremmo essere capaci di evitare ogni retorica, ogni facile giudizio, ogni tranquillizzante distanza.
Vorremmo essere capaci di scendere nel baratro, senza difese, insieme a coloro che scrissero queste memorie e per una notte strapparle all’effimero deperire del ricordo. Per non dimenticare.
Così in queste notti negli spazi del Castello di Rovereto, racconteremo piccole storie, frammenti e brandelli di esistenze che riescano, però, con forza, ad illuminare una “Storia più grande” che sta sempre alle loro spalle.
Una “donna antica”, un’Ecuba che viene dal mondo lontano della tragedia greche, accompagnerà le fasi dello spettacolo, come per segnalare la perenne presenza della guerra nella storia degli uomini.
Ma non è un’Ecuba che si rassegna al dolore e alla sconfitta; non si dà pace, non comprende come tutto ciò possa ancora e sempre accadere.
È un teatro fatto di montaggi e sequenze, un teatro che usa i linguaggi diversi, dal canto al movimento al racconto orale e individuale alla coralità narrante, sempre attento a trovare immagini necessarie piuttosto che di per sé belle, immagini che dicano la nostra necessità di attori e spettatori, oggi, a pochi anni dalla fine del Millennio, quando ancora la parola guerra macchia paesaggi e genti, a noi anche vicine, e quando ancora le parole conclusive che accompagnano l’ultima scena risuonano attuali.

Marco Baliani


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