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PINOCCHIO NERO

un progetto di Marco Baliani
in collaborazione con Giulio Cederna, John Muiruri
con Alex Wagacha, Daniel Kamande Ng’ang’a, Dennis Kiarie Mumbi, George Kamau Wangari, George Ngugi Kimani, James Ng’ang’a, John Chege, John Muthama, Joseph Kamau, Joseph Muthoka, Kevin Chege, Michael Mwaura, Mohamed Kamau, Nahashon Mbugua, Ibrahim Karanja, Onesmus Kamau, Patrick Kamau, Samuel Gakuha, Wilson Franco, Wycliffe OnyWera
collaborazioni artistiche Elisa Cuppini, Maria Maglietta, Letizia Quintavalla, Morello Rinaldi, Riccardo Sivelli
video Angelo Loy
coordinamento tecnico Paolo Gamper
tecnici Diego Guerzoni, Daniele Patriarca, Giuliano Viani
coordinamento per l’Italia Giuska Ursini, Daniela Cuomo, Antonella Fezzi per AMREF Italia, Alessandra Belledi per il Teatro delle Briciole
coordinamento per l’Africa Francesco Aureli, Manuela Accarpio


ALFABETO COMUNE
Pochissimo ho scritto di questo mio viaggio in Africa, ho scattato poche immagini. È come se il respiro grande del cielo africano, quell’orizzonte allargato, sfuggissero alla possibilità di essere catturati, fissati in una pagina scritta, o in una fotografia. O forse un viaggio lo si racconta quando è terminato e si ritorna a casa. Mi sento ancora nel mezzo della traversata, straniera io, in questo gruppo di ragazzi, con parole e strutture di pensiero che non servono qui con loro più di tanto e con la necessità di reinventarsi in un’urgenza di comunicazione.I miei sensi sono aperti, pronti a catturare ogni cosa, odori, suoni, gesti, espressioni. Dopo un po’ se si parla meno si vede e si sente di più. Tutto quello che nel lavoro viene proposto, viene assorbito, a volte gioiosamente trasformato, diventa alfabeto comune. In questo andare, la disponibilità al cambiamento è preziosa compagna di viaggio.E se Pinocchio narra di una trasformazione possibile, forse anche noi tutti, alla fine del viaggio, riusciremo a raccontare la nostra.


di Marco Baliani

Sono passati tre anni da quando li ho incontrati la prima volta, all’inizio del progetto, nell’agosto del 2002 a Nairobi. In tanti anni di lavoro mi era capitato di condurre esperienze teatrali nei luoghi più disparati, nelle condizioni più estreme e difficili, sapevo quanta forza possiede l’atto teatrale quando a condurre il gioco è la forza di un gruppo, conoscevo gli allenamenti e gli esercizi per creare un ensemble.
Avevo dunque tra le mani un sapere maturato in anni e anni di apprendistato, ma era la prima volta che avevo di fronte venti ragazzi di strada, a Nairobi, nel cuore dell’Africa. Non ero per niente sicuro di farcela.
Dopo la prima settimana di esercizi, giochi di contatto, improvvisazioni, feci loro un discorso rischioso, gli dissi che avevano nelle loro mani la possibilità di cambiare la loro vita, parole grosse, dettate dall’urgenza di non perdere le energie che già avevano messo in moto. Mi ascoltavano silenziosi, assorti, occhi negli occhi.
Gli feci l’elenco di quello che avrebbero dovuto fare se volevano provarci, gli parlai della disciplina, del gruppo, gli dissi che dovevano smettere di sniffare colla, gli parlai delle tecniche, degli allenamenti e degli esercizi che lasciavo loro come compiti giornalieri.
Da allora ogni due, tre mesi sono andato a trovarli, prima da solo, poi via via con gli altri artisti che coinvolgevo nel progetto, e che portavano altre pratiche, altre esperienze. Intanto loro divenivano gruppo, si rafforzavano nella solidarietà, scoprivano attraverso il teatro la possibilità di esprimersi. Grazie al progetto, ai contributi trovati, agli spettacoli gratuiti fatti per raccogliere fondi, AMREF decise di investire ancora di più nel percorso formativo. Affittò una casa, con un giardino dove lavorare, un posto dove dormire, lavarsi, cambiarsi, mangiare, e dove riprendere a studiare. Alcuni di loro sono tornati a scuola.
Poi un giorno ho raccontato ai ragazzi la storia di Pinocchio. Ho visto i loro occhi luccicare, ho capito che funzionava, potevano prendersi la storia del burattino, e farla loro.
Questo è quello che è accaduto da lì in avanti. Vedo e so che loro sono cresciuti, in tutti i sensi, nei loro corpi, sono tutti più alti di una spanna, nei loro sguardi che si sono aperti e che ora possono incrociare quelli degli altri senza abbassare la testa, da pari a pari.
Adesso non si sentono più chokora, che in swahili vuol dire spazzatura, adesso sono persone.
Il teatro che gli ho proposto è un allenamento a vivere e a salvarsi la pelle, una cosa molto concreta, bella anche perché gioiosamente utile.
C’è in questo anche una poetica, quella che cerco sempre nei miei lavori, la coniugazione della bellezza come frutto di una necessità. Questo è un teatro necessario come i racconti di Sherazade, fintanto che loro sono in scena esistono, ci sono, qualcuno li ascolta, la morte è lontana, per un po’ è stata sconfitta.


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