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PEER GYNT

Da Henrik Ibsen
drammaturgia Marco Baliani, Francesco Guadagni, Renata Molinari
regia Marco Baliani
interpreti Corinna Agustoni, Roberto Anglisani, Peter Busuttil, Isabella Carloni, Cristina Crippa, Elisa Cuppini/Maria Maglietta, Gabriele Duma, Fabiano Fantini, Manuel Ferreira, Paola Fiore-Donati, Coco Leonardi, Elisabetta Pogliani, Andrea Renzi, Patricia Savastano, Maurizio Uncinetti Rinaldelli
scene e costumi Maria Maglietta
luci Nando Frigerio
drammaturgia musicale Gabriele Duma
foto della locandina Ferdinando Scianna
produzione TeatridiThalia


I SEGNI DELLA SCENA di Maria Maglietta
In questo viaggio del Peer Gynt sarei dovuta essere attrice, dopo aver partecipato, come drammaturga, alle tappe dell’estate precedente. Poi, con l’andar del tempo, l’attenzione che richiedeva il lavoro sui costumi e sugli elementi scenici (oggetti, spazio, spostamenti) mi ha convinta a cambiare ruolo.
Non è la prima volta, lavorando con Marco, che ciò accade; ma la possibilità di ricoprire ruoli diversi, spostando i punti di vista e le sensibilità, trovo sia un grande arricchimento. Da aiuto-regista o da drammaturga scopro percorsi di esperienza dell’attore che, come attrice, non avrei toccato, e viceversa: credo infatti che ogni attore, in questo modo di lavorare, sia partecipe del progetto drammaturgico, ne comprenda lo sviluppo e possa quindi intervenire creativamente. Quando di parla di costumi o di oggetti scenici (preferisco questa definizione a quella di scenografia) occorre uscire dalla convenzionalità delle parole con cui un certo pensiero teatrale definisce tali comparti. Spesso scene e costumi seguono una via loro propria di progettazione parallela ed esterna al lavoro del palcoscenico e vengono calati spesso negli ultimi giorni di prova, a ricoprire corpi e spazio, a cui obbligatoriamente adattarsi.
Qui invece lavorare, per esempio, sui costumi, significa costruire un percorso nel tempo, pezzo dopo pezzo, un coerente e necessario sistema di segni, che cresca insieme al lavoro dell’ensemble, come un organismo che sviluppandosi. Anch’io procedo sviluppando una mappa di elementi e segni che, nella storia che si vuole narrare, potrebbe esistere.
Il criterio non è quello illustrativo. Il più delle volte le mie risposte seguono un filo interno “istintuale”, spesso mi vengono in mente elementi che apparentemente non sono pertinenti: scoprire se lo sono è propriamente la parte del lavoro che intreccia il mio operare con quello degli attori, del regista, del drammaturgo. Spesso gli elementi che costituivano certezze iniziali si rivelano, nel corso del lavoro soltanto strumenti per giungere a qualcos’altro, diventano elementi transitori per identificare un possibile sviluppo drammaturgico.
La fatica e lo spreco di energie creative è quindi molto alto e possono essere accettate solo a patto di una grande disponibilità al “cambiamento”.
Ci sono oggetti e parti di un costume che diventano elementi cardine di una intera scena. All’inizio questo non lo si può sapere. Bisogna proporre e stare a guardare senza troppe aspettative ma attenti a come le immagini prendono forma. Dopo un po’ se l’elemento proposto (un paio di scarpe, le code di paglia dei Trold, le corna di renna fatte di rami, il velo da sposa ecc…) non esaurisce da sè il proprio potenziale allora inizia un processo di continua scoperta intorno ad esso e al suo necessario ruolo in quella storia.
Mi è capitato come attrice di scoprire fino in fondo la forza di un oggetto solo dopo molte prove. Occorre anche dire che partendo da una nozione di spazio scenico come vuoto da riempire con discrezione (lo spazio architettonico del teatro senza quinte, fondali o cortine è in questo lavoro del Peer Gynt un primo elemento drammaturgico), un paio di scarpe in scena può divenire visibilmente imponente, può cioè attivare un meccanico di “proiezione mitica” nello spettatore, proprio in rapporto alla “nudità” del tutto. Il costume deve divenire per l’attore una seconda pelle; l’attore deve sentirlo suo, giusto, con esso deve poter creare, per questo è importante che non gli arrivi tre giorni prima del debutto, deve crescere nel tempo della messa in scena, e se per motivi di necessità deve ridefinirsi, l’attore deve poterlo sempre riconoscere.
A volte, all’interno del flusso del racconto (questo avviene di frequente in un teatro epico-narrativo) un attore si stacca dal coro e, solo in quel momento, magari per un tempo limitato diventa un personaggio preciso. Il costume deve quindi configurare in maniera precisa quel personaggio, ma nei momenti di coralità deve invece far prevalere la visione e la forza del coro nel suo insieme. Costume come somma di segni di diverse appartenenze con la funzione di rompere possibili assolutezze nello spettatore, che non deve riconoscere un tempo e un luogo storico precisi. Piuttosto ampliare per lo spettatore le possibilità evocative di un oggetto o di un costume, senza mai decifrare del tutto gli “strati di tempo e di memoria” che questi posseggono.


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